Ci voleva il talento di Denis Villeneuve per portare sullo schermo "Arrival", gioiello fantascientifico dalle molteplici letture. Per chi scrive, insieme a "Silence" di Martin Scorsese, è già una delle migliori uscite del 2017.
C’è ancora qualche specie extraterrestre che ci vuole bene e che si preoccupa del nostro benessere? Cinema, letteratura e fumetti da sempre insegnano che il nostro pianeta non è che risvegli quei gran sentimenti di fratellanza e amore. D'altronde buon senso (alieno) vuole che una volta conosciuta la razza umana, tutto si dovrebbe fare tranne che lanciarle un’àncora di salvezza: nella migliore delle ipotesi questa ritornerebbe al mittente con la scritta “Martians, go home!”, nella peggiore, invece, l’esercito – ottuso come da copione – sistemerebbe la questione con un bel bombardamento. Denis Villeneuve (Sicario; Prisoners) invece crede in una visione “umanista” del primo incontro con una nuova specie aliena e con Arrival porta su grande schermo una fantascienza che abbiamo quasi dimenticato, ormai sommersi dalle invasioni letali e dalle guerre stellari. E lo fa con una profondità di rimandi ed un rigore non comuni, così che nemmeno il discutibile coup de theatre finale – che tira pericolosamente dalle parti di Interstellar – riesce ad affossare l'integrità di fondo della pellicola.
Due piani della stessa realtà
Adattato dal racconto Storia della tua vita di Ted Chiang, Arrival si pone su due piani di lettura: da una parte la trama più “facile” che vede la linguista Louise Banks (Amy Adams) contattata dall’esercito affinché, con l’aiuto del fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner), traduca e trovi un linguaggio comune con una specie aliena atterrata in dodici punti differenti della Terra; dall’altra un testo più stratificato che attinge e riceve influssi dal cinema presente e passato (Terrence Malick su tutti, ma anche Ultimatum Alla Terra (1951), Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo e Contact), dalla religione (riferimenti cristologici e biblici sono disseminati più o meno palesemente in tutta la pellicola, per fortuna non fastidiosamente come invece spesso succede in molte altre pellicole), dalla scienza e dalla psicologia, passando per il meta-cinema. A volerla affrontare, una mole spaventosa di spunti sicuramente non analizzabili in queste poche righe.
Language Is A Virus (From Outer Space)
Il trait d’union fra i due livelli di lettura è sempre il linguaggio: dapprima non compreso, mancante, travisato, una gabbia circolare incomprensibile (o forse quel virus venuto dallo spazio che, secondo William Burroughs, ci impedisce da sempre di comunicare realmente), poi finalmente seme di un terreno comune fra gli esseri umani e gli alieni. Il film di Villeneuve dimostra che la fantascienza – ogni tanto va ricordato – è stata, può e deve essere anche altro. Fra le sue tante caratteristiche, infatti, da sempre v'è stata quella di essere una sorta di osservatorio in cui vengono proiettate nel futuro alcune tendenze presenti nell'attualità. Nel caso di Arrival basterebbe spostare i timori nati dall’incontro con il “diverso da sé” dagli extraterrestri filmici ai più che reali “fratelli” terrestri di altre etnie - che per troppi nostri concittadini sono anche più aliene di quelle marziane - ed il gioco sarebbe fatto.
Perchè vederlo
In attesa (fiduciosa) dei due prossimi rischiosissimi progetti di Villeneuve, ovvero Blade Runner 2049 e l'appena annunciato Dune, finalmente una visione adulta della fantascienza, non schiava di ritmi forsennati, invasioni e sparatorie laser.
Perchè non vederlo
Il racconto, come è giusto che sia, si prende i propri tempi: chi, in un film di fantascienza, cerca solo fragoroso intrattenimento da seguire con un occhio allo schermo ed uno al cellulare, fa prima ad evitare.